Massa salariale e occupazione: i dati sono impietosi quanto prevedibili, nel raffronto tra il 2019 e il 2020, anno della pandemia, ma raggiungono vette drammatiche per il nostro Paese se raffrontate con quelli registrati nell’Eurozona. La fotografia è stata scattata dalla Fondazione “Giuseppe Di Vittorio”, in una delle ultime ricerche che periodicamente effettua per monitorare lo stato di salute del lavoro in Italia, con particolare riferimento a salari o occupazione. Dati che subiranno certamente una sostanziale variazione non appena saranno disponibili quelli del 2021, anno in cui si è registrata una crescita del Pil del 6%.
Massa salariale in netta flessione
Il dato preoccupante è per il volume della massa salariale, che in Italia cala del 7,2% a fronte di una decrescita di “solo” il 2,4% dell’Eurozona. Un segno negativo, attutito in parte, ma in modo deciso, dai sostegni decisi dal governo, a partire dagli ammortizzatori sociali fino al blocco dei licenziamenti che hanno consentito di contenere gli effetti della pandemia sull’occupazione, calata del 1,7%, solo lo 0,4% in più rispetto alla media europea. Nel 2020 sono stati erogati 17,3 miliardi in più rispetto al 2019 in sostegni al reddito, consentendo di mitigare la crisi almeno per quanto riguarda la media dei salari, generalmente più bassi che nel resto del Vecchio Continente, almeno nelle nazioni comparabili con l’Italia.
“Tornare al 2019 – sottolinea Fulvio Fammoni, presidente della fondazione, nel presentare la ricerca – non sarà sufficiente, dato che anche nell’anno precedente la pandemia, in Italia i salari non avevano ancora recuperato appieno i valori persi per la precedente crisi del 2008”.
Già nel 2019, infatti, i salari medi italiani erano inferiori di circa 9mila euro rispetto a quelli francesi e di circa 12mila raffrontati con quelli della Germania. Nel 2020 si recede ancora, scendendo sotto la soglia dei 30mila euro annui, vicini al salario medio dei primi anni 2000. E anche a voler approfondire, cercando un minimo di conforto, il rapporto tra salario lordo e salario netto peggiora invece la situazione, registrando in Italia un peso della pressione fiscale maggiore rispetto a quello degli altri paesi presi a paragone.
Occupazione in recupero solo parziale rispetto al 2020
Sul versante dell’occupazione non si dispone ancora dei dati ufficiali del raffronto 2020/2021 dell’Istat, ma la tendenza fino ad agosto mostra solo un parziale recupero rispetto all’anno precedente, con un fortissimo aumento della precarietà e di conseguenza dei problemi che riguardano i giovani e le donne e le profonde differenze territoriali: tra agosto 2020 e agosto 2021 l’80% dei nuovi inserimenti lavorativi è con contratti a termine.
“Tornare al 2019” quindi significherebbe registrare un livello tra i più bassi in Europa, su uno scalino di ben 9 punti percentuali più in basso alla media continentale. E sempre 9 punti sono quelli che (in più) fanno registrare un livello di disoccupazione che ci pone come fanalino di coda nella classifica europea. Ai dati ufficiali sui disoccupati (9,2% della popolazione) vanno sicuramente aggiunti i cosiddetti inattivi, con un tasso di disoccupazione (definito Indice di disoccupazione sostanziale da una precedente ricerca sempre della Fondazione Di Vittorio) ad un più realistico 14,5%.
Tra gli occupati, uno dei problemi principali è rappresentato dall’addensamento di moltissimi addetti nelle basse qualifiche professionali. Ai livelli più bassi del mercato del lavoro si collocano il 34% degli occupati (il 27,8% in Europa); ai livelli più alti il rapporto si inverte: solo il 15,5% in Italia contro il 25% dell’eurozona. Questo incide sicuramente sui salari medi, ma è anche specchio del nostro modello produttivo e educativo. Tra i lavoratori dipendenti si registra infatti un calo di laureati (- 12,7%) e diplomati (- 16%), con un saldo negativo ulteriore nel rapporto tra nord e sud del Paese, conseguenza diretta dell’emigrazione giovanile di figure professionali qualificate, in cerca all’estero di un lavoro che riconosca maggiori competenze e retribuzioni.
In estrema sintesi, i numeri sono impietosi: 3 milioni di precari, 2,7 milioni di part-time involontari (di cui una parte anche precari), 2,3 milioni di disoccupati ufficiali (stimati dalla Fondazione in quasi 4 milioni come disoccupazione sostanziale); uno spaccato davvero troppo alto, ingiusto e insostenibile, di lavoro povero e discontinuo, che conta circa 5 milioni di lavoratrici e lavoratori con un salario medio effettivo non superiore ai 10 mila euro lordi annui. Non mancano nemmeno le posizioni lavorative sotto i 6 mila euro annui e quelle attorno ai 9 mila (per circa 3,3 milioni di persone).
“Disoccupati, inoccupati, precarietà – commenta la segretaria generale di Filcams Cgil, Maria Grazia Gabrielli – tutti elementi che portano a confermare quanto da tempo sosteniamo: una seria e incisiva politica del lavoro, in Italia, va attuata in termini di inclusione e soprattutto di qualità, con interventi decisi di contrasto alla precarietà e alle diseguaglianze di genere, di tutela dei salari e dei diritti. La questione della precarietà del lavoro è quella che deve segnare il cambio di prospettiva per le persone”.
Su questi temi si innesta anche la mobilitazione di queste settimane, che mette al centro il lavoro, ponendo l’attenzione sui salari e sulla qualità dell’occupazione e la condizione delle persone, con la richiesta al Governo di cambiare la manovra e fare altre scelte su fisco, pensioni, ammortizzatori, mercato del lavoro.
“Obiettivi – conclude Gabrielli – che si raggiungono grazie ad investimenti per l’occupazione che rispondano ai requisiti indicati. Un ruolo che deve essere svolto anche dalla contrattazione nazionale che va rafforzata e sostenuta. Una centralità del Contratto Nazionale che va praticata rinnovando i contratti, superando la distorsione dannosa dei ritardi nei rinnovi fino ad arrivare alla legge sulla rappresentanza e alla validità erga omnes, mettendo un argine definitivo al dumping contrattuale che si scarica sulle condizioni economiche e normative delle lavoratrici e lavoratori”.
LEGGI QUI il report completo della ricerca della Fondazione Di Vittorio