Tra 2009 e 2014 emorragia di posti in manifattura mentre gli addetti sono saliti di 141.000 unità nei servizi di ‘supporto’.
Negli ultimi anni di crisi economica (2009-2014) nell’industria si sono persi più di 1 milione di posti di lavoro, mentre nei servizi “di supporto” il dato sull’occupazione ha fatto registrare un significativo incremento (+141.000 addetti). La crescita della rilevanza del “terziario” nell’economia è stata costante e graduale, a fronte di una congiuntura negativa che, soprattutto negli ultimi anni, ha prodotto perdite nel manifatturiero. Se nel 1970 la quota di Pil ascrivibile ai servizi era pari al 37,1%, nel 2014 questa è salita al 53,3%. Nello stesso lasso temporale la quota di occupati a tempo pieno nel settore è cresciuta dal 24,5% al 42,3%. Di contro dal 1970 al 2014 la quota di Pil del manifatturiero è scesa dal 25,9% al 15,5%, mentre la quota di occupati è passata dal 23,9% al 14,6%. Parte da questi dati l’indagine della Fondazione Censis, presentata nei giorni scorsi a Roma nel corso della tavola rotonda promossa dal Fise (Federazione imprese di servizi di Confindustria) dal titolo “Concorrenza e Lavoro — Una regolamentazione per il futuro dei servizi”. Indagine che fotografa il punto di vista delle imprese aderenti all’associazione sul mercato di settore e sulle sue tendenze. Sono dati, quelli del Censis, che attestano in sostanza il costante processo di “terziarizzazione” della società italiana, testimoniato anche dal progressivo calo delle spese delle famiglie per l’acquisto di beni (durevoli: — 3,4%; semidurevoli: — 1,3%; non durevoli: — 0,3%) e dal contestuale aumento della quota investita sui servizi (+5%).
Primi segnali positivi, sul fronte normativo, sono contenuti all’interno del disegno di legge delega per il recepimento delle direttive europee sugli appalti pubblici e concessioni, che ad oggi prevede: il tendenziale superamento del massimo ribasso, l’individuazione di strumenti di qualificazione delle stazioni appaltanti e delle imprese, un’attenzione alle specifiche peculiarità dei servizi, con particolare riguardo a quelli labour intensive e, infine, l’innovativo riconoscimento del ministero dello Sviluppo economico tra i dicasteri chiamati al concerto per la definizione del nuovo regolamento attuativo del codice dei contratti pubblici. Ma non basta.
I modelli a cui ispirarsi, è emerso dal confronto, sono quelli della Germania e dell’Olanda dove esiste una normativa sui servizi collaudata da anni. Oppure l’esempio della Francia dove esiste una forte sensibilità degli appaltatori nei confronti dell’ambiente.
Intanto, quando si parla di concorrenza, oltre un terzo delle aziende del settore (il 36%) non ha esitazioni nel dire che il vero problema riguarda l’esasperata competizione sul solo costo del lavoro. Altre criticità, come l’estensione incontrollata dei monopoli legali in ambiti di mercato (16,8%) o la farraginosità delle procedure (13%), sono sì importanti, ma non così determinanti. L’85,3% del campione ritiene poi che il processo di liberalizzazione dei mercati sia bloccato o fortemente condizionato da lobby pubbliche che cercano di mantenere gli attuali equilibri. Tale chiusura del mercato in favore del cosiddetto in house è giudicata dal 70% del campione inaccettabile, anche se solo la metà di questi pensa che sia aumentata negli ultimi 10 anni. Eppure, anche in presenza dei fenomeni descritti e della perdurante situazione di crisi, il 36,2% ritiene che negli ultimi 2-3 anni si siano aperti per il proprio settore dei nuovi spazi di mercato. Se nel 1970 la quota di Pil ascrivibile ai servizi era pari al 37,1%, nel 2014 questa è salita al 53,3%, mentre la quota di occupati a tempo pieno è cresciuta dal 24,5% al 42,3%
(da Repubblica.it)