In realtà l’applicazione era disponibile già da un paio di anni, ma ci sono voluti alcuni personaggi famosi, tra cui Leonardo di Caprio, ed un certo clamore mediatico per dargli il lancio necessario a superare le migliaia di App concorrenti: parliamo di Face App, di cui si è discusso moltissimo nei mesi scorsi. In sostanza, l’applicazione, postando una propria foto attuale o di qualche anno fa, permette in tempo reale una elaborazione che la “invecchia”, per farci vedere come saremo tra dieci o vent’anni. Il tutto, ovviamente, “gratis”. Ma non è su questo punto, tantomeno sull’opportunità di farsi “mappare” il volto da un’intelligenza artificiale (AI), che si è acceso il dibattito nei media: quanto piuttosto sulla bandiera della software house sviluppatrice dell’App, la Wireless Lab, di proprietà russa, attiva da diversi anni nel settore delle applicazioni per smartphone e che ora ha conosciuto di sicuro un certo successo. Il fatto che la proprietà non fosse statunitense o europea ha fatto immaginare a molti scenari da post-guerra fredda in stile orwelliano con folle di occidentali ignari che fanno la fila per consegnare tutti i propri dati personali, compresi quelli biometrici legati al riconoscimento facciale, ad una potenza straniera che in futuro sarà in grado di controllarli. Il fatto che anche il presidente degli Stati Uniti abbia utilizzato l’app dovrebbe tranquillizzare tutti, almeno su questo punto (o forse, in questo caso, è vero il contrario…).
Umorismo a parte, a ben vedere, la verità di tutta questa storia, è un’altra e – se vogliamo – ancor più dura da digerire. Esistono migliaia di software house russe, cinesi, indiane che sviluppano altrettante App che utilizziamo ogni giorno e alle quali consegniamo, senza colpo ferire, tutti i nostri dati personali. La geopolitica c’entra fino ad un certo punto. Sono gli scenari economici legati all’economia del Web che dovrebbero preoccuparci: la parola “gratis” con cui queste applicazioni si accompagnano negli store da cui le scarichiamo giornalmente, contiene in sé una concezione completamente differente del concetto di gratuità come noi lo intendiamo ogni giorno nella nostra società. Partiamo dall’ovvio: se in un sistema economico nulla è gratuito ed ogni transazione prevede quantomeno uno scambio, dobbiamo immaginare che anche noi, quando clicchiamo sul download di una App “gratuita” o ci iscriviamo ad un social network come Facebook, stiamo cedendo qualcosa in cambio. Cosa? La nostra privacy, ovvero il complesso dei nostri dati personali, privati e attitudinali che ci definiscono come persona unica in questo mondo. La famosa frase “se non state pagando qualcosa, non siete un cliente, siete il prodotto che stanno vendendo”, scritta dal giornalista Andrew Lewis e divenuta ormai un mantra è senza dubbio vera. Ogni software, ogni applicativo, ogni App, contiene due versioni di sé stessa: una pubblica, quella che vediamo noi, nella quale le informazioni che abbiamo pubblicato appaiono in un certo modo, generalmente una foto, un nome utente, la nostra mail, il nostro nickname, ecc. e una versione “privata” che noi non possiamo vedere e a cui possono accedere solo gli sviluppatori del software, nella quale i nostri dati sono grezzi e completamente diversi. Entrambe queste versioni “producono”, attraverso il nostro utilizzo, qualcosa. Prendiamo ancor il caso di Face App: la versione pubblica che tutti vediamo produce un volto invecchiato, la cosa ci piace, ci soddisfa e magari condividiamo la foto con gli amici su un Social. Contemporaneamente, la versione “privata” cataloga e registra, attraverso complessi algoritmi, il nostro volto in termini biometrici, la nostra posizione geografica, le nostre preferenze inserite in fase di registrazione, le modalità di condivisione e altre tracce della nostra presenza sul web, rendendoci un “pezzo unico” da catalogare e, certamente, vendere in futuro al miglior offerente. Una foto in cambio di centinaia, migliaia di dati personali. Non esattamente uno scambio alla pari, e gli unici che fanno qualcosa gratis siamo proprio noi: ogni giorno, come utenti del Web, cediamo i nostri dati senza pretendere alcun tipo di remunerazione.
I dati sono il nuovo petrolio?
Lo sostengono diversi economisti. Oggi la corsa ai dati – diremmo meglio ai c.d. big data, ovvero quantitativi enormi di dati – da parte di alcune grandi aziende assomiglia molto alla corsa all’oro nero, al petrolio, iniziata nel secolo scorso e oramai, quasi in fase di conclusione. Ecco allora la prima differenza: il petrolio si esaurisce, i dati, no. Hanno una capacità pressoché infinita di combinarsi, rigenerarsi, riacquistare nuovo senso. Allora chi li detiene – in grande quantità – possiede anche il pentolone per fare la magia algoritmica: leggerli, interpretarli e moltiplicarli (e poi, ovviamente, venderli sottoforma di spazi pubblicitari). Nei primi quattro mesi del 2016 l’89% delle entrate di Google e il 96,6% di quelle di Facebook sono arrivati dalla vendita di spazi pubblicitari (basata sulla profilazione degli utenti). Una piattaforma software appena nata, sia essa Face App oppure una qualsiasi App scaricabile dallo store, appena avviata è come un neonato in un ambiente ostile che deve crescere abbastanza rapidamente da sopravvivere. Il metodo migliore per la sopravvivenza è raccogliere così tanti dati e così velocemente che quando se ne accorgeranno i predatori (le App potenzialmente concorrenti), riterranno inutile assalire quella nicchia. Allora il problema rimane sempre lo stesso: raccogliere dati in fretta e, per farlo, generare traffico, ovvero trovare qualcuno che possa fare qualcosa con la tua App. All’inizio può anche essere una cosa banale: eBay debuttò come sito per facilitare gli scambi tra collezionisti di distributori di caramelle. La chiave di tutto è che la App sia la tua. Il grande abbaglio del “tutto è gratis”, sostenuto e foraggiato agli albori di Internet anche dai primi, illuminati, iper-idealisti cyber-intellettuali, si svela per quello che è, un abbaglio. Ogni processo di demonetizzazione a cui abbiamo assistito passivamente, forse anche con un po’ di soddisfazione, dalla proprietà intellettuale legata ai diritti musicali, all’informazione online, ha, nei fatti, contribuito a impoverire molti, arricchendo veramente pochi. Per iniziare ad uscire da questo angolo in cui il Web ci ha relegato occorre comprendere che ognuno di noi è, oltre che fruitore di servizi online, anche un venditore estremamente generoso di dati e informazioni personali.
In questa storia c’è, poi, un ulteriore risvolto, totalmente negativo, che per ora accenniamo solamente. Si tratta di quello che qualcuno, provocatoriamente, ha definito come “economia dell’odio” online. In questo sistema economico del “tutto è gratis” e del “quello che scrivi tu vale quanto quello che scrivo io” sta accadendo proprio questo: che i nostri dati personali – il petrolio che forniamo gratuitamente alle big company (come Facebook e Google) mentre esprimiamo le nostre opinioni – possono subire un vero e proprio processo di “raffinazione”. Quando si mescolano all’aggressività, al razzismo, alla paura, all’ignoranza e alla discriminazione, si crea una mistura micidiale, vera e propria “benzina” sul fuoco, capace di trasformare i discorsi più violenti e insensati in quelli più virali e di successo. Lo chiamano “hate speech”, discorso d’odio, ed il Web ne è ormai infestato. Ne parleremo.
Con questo articolo inizia la collaborazione di Roberto Bortone con Filcams e Il Magazine. Con lui affronteremo ogni mese un argomento legato a temi di attualità, legati alla loro diffusione attraverso i social.