Proprio oggi che si stanno ridefinendo rapidamente i modelli di organizzazione nell’industria, sopra la testa dei lavoratori, diretti e indiretti, e di chi li rappresenta, con il rischio di decine di migliaia di licenziamenti, anche per il terziario, per il nostro terziario, quindi per i servizi, per gli appalti, per la filiera del turismo, della ristorazione e della cultura, per il terziario in senso stretto, per il commercio, per la distribuzione, il tema di un nuovo modello di sviluppo, sempre che per il terziario ce ne sia mai stato uno, è diventato cruciale.
Sarebbe temerario, oltre che inesatto, affermare che la politica, le istituzioni, la nostra classe imprenditoriale nel corso del tempo si siano mai interessate o abbiano posto attenzione alla definizione di un modello di sviluppo del terziario, o anche soltanto all’avvio di un confronto in tema.
Ma d’altro canto, chi non ha mai fatto programmazione industriale.
Chi ha trovato la complicità di interi settori della politica nel disarticolare l’automotive, nel distruggere la siderurgia, il tessile, la componentistica, chi ha depredato risorse pubbliche per poi trasferire all’estero catene di comando, controllo, estrazione e accumulazione del profitto.
Chi ha fatto e sta facendo tutto questo, come potremmo aspettarci che faccia di meglio nel terziario?
Purtroppo, le rare, rarissime occasioni in cui si è discusso di politiche del terziario, lo si è fatto sostanzialmente in relazione agli altri settori, al primario, al secondario, ad altra parte dello stesso terziario, rispetto ai quali si è ritenuto che i nostri di settori fossero parte funzionale, o satellitare, o ancillare.
L’intervento in video: https://www.youtube.com/embed/0h7ue3F2mVE
Questa impostazione in parte è da ricondurre alla complessità, alla disarticolazione, alla frammentazione che caratterizzano questa parte ormai consistente dell’economia del nostro paese e che certo non ne agevolano la comprensione delle dinamiche, degli andamenti, degli sviluppi.
In parte attiene alla difficoltà di dare una identità, di portare ad una sintesi e quindi di riconoscere il valore di un contesto così diversificato, così eterogeneo e pure così recente
È lo stesso contesto che però oggi incide per più del 40% sul prodotto interno lordo, che conta poco meno di 10 milioni di lavoratrici e di lavoratori all’attivo, più del 50% dell’occupazione complessiva, e che si sviluppa su centinaia di migliaia di imprese che compongono un tessuto economico produttivo sostenuto in larga parte dal lavoro di giovani, di donne, di migranti e di precari.
Un paradosso! Un paese che, con indifferenza e inconsapevolmente, o forse fin troppo consapevolmente, sfrutta la propria parte più fragile, privando di qualsiasi prospettiva settori strategici per l’intera economia nazionale.
La discussione che stiamo affrontando oggi è importante perché si pone l’obiettivo di superare una serie di barriere che impediscono di definire un modello realmente sostenibile di sviluppo, che per essere tale deve riguardare inevitabilmente in modo trasversale i diversi settori, sono le stesse barriere che rendono anche, soprattutto, più difficoltosa un’effettiva tutela delle lavoratrici e dei lavoratori.
E allora come richiama il titolo dell’iniziativa e come ha evidenziato parte rilevante degli interventi di oggi, si tratta di comprendere come tenerle insieme le diverse economie, i diversi modelli, i diversi lavori, – strettamente interconnessi tra di loro – che in realtà non sono altro che aspetti diversi della stessa economia, dello stesso modello, dello stesso lavoro: i tratti salienti e spesso comuni delle mobilitazioni che le categorie dell’industria, del pubblico impiego, della conoscenza, dei trasporti, dei pensionati, dello stesso terziario stanno sostenendo ancora in questi giorni ne sono la riprova.
I processi, le trasformazioni, le riorganizzazioni sono oggi di alcuni per poi esserlo di altri domani; i licenziamenti del presente altro non sono che ulteriore linfa per La precarietà del futuro; il terziario, il nostro terziario, rappresenta da questo punto di vista l’esemplificazione strutturale del rischio che corrono anche altri settori.
Non c’è dubbio, il terziario è divenuto, purtroppo, fronte emergenziale e terreno di scontro privilegiato da questo punto di vista. Abbiamo letto tutti la storia di Asif Khan, uno delle migliaia di afghani che sono venuti in occidente per sfuggire alla guerra.
Uno delle migliaia di rider anonimi che, perfino quando la pioggia torrenziale flagellava l’Italia, si è visto costretto a consegnare cibo a domicilio rischiando la salute e la vita, ma soprattutto mostrandoci pubblicamente quali sono l’efferatezza e lo sfruttamento in cui si espandono e prosperano i cosiddetti nuovi lavori.
“Sentivo freddo, ero bagnato ed ero preoccupato che si fosse rovinato anche il cibo, perché so che i clienti e la piattaforma poi si lamentano. e poi pensavo alla mia bici elettrica: è la terza che compro per questo lavoro, due me le hanno già rubate”, queste le sue parole.
L’idea aberrante che una “piattaforma” si lamenti, cioè, che il lavoratore sia sorvegliato e tiranneggiato da un sistema di programmazione algoritmica, una piattaforma appunto, che trasforma i malcapitati prestatori d’opera in robot umani, in estensioni di una macchina cieca di logistica industriale che non deve mai fermarsi.
Che differenza c’è dal Charlie Chaplin vittima degli ingranaggi della catena di montaggio in “tempi moderni”, un film di quasi un secolo fa? decenni di trasformazione tecnologica invece che portare a una maggiore evoluzione della civiltà dei rapporti e della coesione sociale portano a ulteriore disumanità, ad altri abusi ancora: ieri per via meccanica, oggi per via digitale, con ancora maggiore efficienza e pericolosità.
e così lo stesso per milioni e milioni di colf e di badanti, di addette e addetti alle pulizie, alle mense, alla ristorazione, alla vigilanza, di cameriere e camerieri, di cassiere e cassieri, di commesse e commessi, di cuoche e cuochi, di rider, di shopper, di lavoratrici e di lavoratori delle piattaforme digitali, anche loro vittime e testimoni, talvolta martiri, invisibili come Asif, di questa nuova mattanza dei diritti e delle dignità, senza i quali non ci può essere alcun modello di sviluppo sostenibile!
Esattamente come chi, in condizioni sempre più disperate e disperanti, invisibile pure lui, lavora nei campi, in fabbrica, nei cantieri, sulle massicciate ferroviarie, rischiando troppo spesso la propria vita.
Ecco perché, abbiamo non solo il ragionevole sospetto ma la certezza che le nostre sfide sono i tanti volti di una stessa battaglia e di una stessa sfida storica.
Ci attende una stagione difficile, anche dolorosa ma è necessario che questo tempo buio delle coscienze noi lo si attraversi insieme per rifondare e ricostruire un nostro progetto di rappresentanza, il progetto di rappresentanza della Cgil.