L’intervista a Lara Ghiglione, responsabile nazionale della Cgil per le Politiche di Genere
Il 25 novembre, giornata internazionale contro la violenza sulle donne, la Cgil Nazionale e le categorie Filcams, FP, Flai, FLC, Fillea e Filt hanno installato nei pressi delle loro sedi delle panchine rosse, simbolo ormai consolidato del contrasto alla violenza sulle donne. Un gesto simbolico, ma importante. Ne abbiamo parlato con Lara Ghiglione, responsabile nazionale della Cgil per le politiche di genere.
Come va interpretato questo gesto di Cgil nazionale e di alcune categorie di posizionare queste panchine rosse?
Il rischio di assuefazione alle notizie di violenze sulle donne è alto, visto che quasi quotidianamente siamo raggiunti da fatti di cronaca di questo tipo. Il nostro impegno è quello di tenere sempre viva l’attenzione su questa emergenza, che è diventata purtroppo quotidianità: queste panchine rosse hanno proprio l’intento di portare le persone a riflettere ogni volta che passeranno davanti ad esse. Si tratta anche di manifestare un’ulteriore assunzione di responsabilità: la panchina rossa è ferma lì a ricordarci, ogni giorno, che spetta anche alla Cgil contrastare la cultura del possesso, provando a diffondere quella del rispetto, rafforzando la nostra azione contrattuale e continuando a chiedere atti concreti, finalizzati a migliorare la qualità di vita e di lavoro delle donne.
Fa impressione sapere che circa il 20% delle donne (una su cinque, sono dati Istat), ha subito violenza almeno una volta nella vita.
A questo dato ne aggiungo altri due: una donna vittima di femminicidio ogni 72 ore e un milione e 400mila lavoratrici che hanno subito almeno un episodio di molestie sul luogo di lavoro. Un numero sicuramente dato per difetto, considerato che spesso le donne non denunciano per paura di ritorsioni e per timore di esser giudicate. Tutti questi fatti sono frutto di una radicata cultura del possesso e della visione patriarcale della società, che assegna ancora alla donna ruoli subordinati all’uomo, sia nel lavoro che nella società. Spesso anche la rappresentazione e la lettura di questi tragici eventi è sbagliata: le dinamiche vengono lette come un tema di rapporto tutto interno alla coppia, un rapporto esclusivo tra due persone, mentre esiste anche una chiara responsabilità sociale e politica.
Sui luoghi di lavoro, che dovrebbero essere dei piccoli paradisi protetti, spesso si manifesta il tipo di violenza più subdolo, quello psicologico, anche se non mancano episodi di violenza e molestie a carattere sessuale. Come può concretizzarsi l’intervento del sindacato nel contrasto a questi comportamenti discriminatori e violenti?
Come sindacato dobbiamo intervenire principalmente su contrattazione e formazione. Nel rinnovo di molti contratti nazionali sono già state inserite clausole di tutela per le lavoratrici vittime di violenza dentro e fuori i contesti lavorativi, dobbiamo fare altrettanto in tutti i contratti aziendali. Un’adeguata formazione dei rappresentanti dei lavoratori può segnare il cambio di passo nel riconoscere in tempo i contesti a rischio, per poter intervenire preventivamente in quelle situazioni che si pongono al limite, che possono scaturire in episodi di molestie, se non di violenza vera e propria. Lavoriamo per riportare i luoghi di lavoro ad essere contesti sicuri che valorizzano le tante diversità. La qualità del lavoro delle donne è, anche in questo caso, un obiettivo fondamentale.
È necessario spingere verso un cambio di mentalità, a scardinare una cultura che vede ancora la donna come soggetto subordinato all’uomo. Ci si potrà mai arrivare?
Le donne continuano a essere penalizzate rispetto alla qualità e quantità del lavoro e anche questo è causa di ricatti e soprusi: basse retribuzioni, alto tasso di part-time involontari o indotti dal lavoro di cura dentro la famiglia, ancora fortemente sbilanciato e poco condiviso all’interno di essa, discriminazioni nelle progressioni di carriera, non permettono a molte donne di godere della necessaria autonomia economica per autodeterminarsi e decidere liberamente.
Talvolta le donne sono costrette ad abbandonare il lavoro o smettono di cercarlo, oppure optano per la riduzione di orario: si tratta di scelte spesso indotte, legate ad una grave assenza di risposte da parte delle istituzioni a manifeste esigenze. Lo stato sociale è ancora carente; noi immaginiamo un modello di servizi e di città che permetta alla donna di non doversi far carico da sola del lavoro di cura e che migliori la qualità della vita di tutte e tutti.
Dobbiamo poi puntare sulla cultura del rispetto, iniziando dalle scuole, per scardinare nelle nuove generazioni quella cultura patriarcale che si riflette in quasi ogni ambito della nostra vita sociale. L’emancipazione della donna, in questo Paese, progredisce a piccolissimi passi: proviamo a far leva anche sui simboli, sulle emozioni e sui significati che trasmettono. Le panchine vengono spesso utilizzate nelle rappresentazioni cinematografiche e celebrate nelle poesie come luoghi protetti e contesti di serenità: si vedono seduti due innamorati, due anziani che chiacchierano al parco, una donna che legge un libro, bambini che giocano; momenti di felicità e serenità. Ci auguriamo che queste panchine rosse diventino simbolicamente il luogo dove tutte le donne vittime di violenza possano riprendere in mano la loro vita, sentirsi libere e tutelate, trovando così il coraggio di reagire, di denunciare e di opporsi alle violenze. Tempo fa, proprio su una panchina, ho letto una frase calzante per questo mio auspicio: “Oggi è il primo giorno della tua nuova vita”.