Ci sono voluti cinque anni. Cinque anni di vessazioni prima e udienze in tribunale poi, per far valere il diritto ad un preciso orario di lavoro, già scritto nei contratti nazionali, ma che molti datori di lavoro faticano a rispettare, appellandosi a inesistenti clausole di flessibilità. Alla fine, la causa è vinta, e sarà sicuramente un chiaro punto di riferimento giuridico per altre vicende simili.
La questione è presto detta: una lavoratrice di Bologna (che chiameremo Maria, perché al momento preferisce rimanere anonima) si è vista modificare radicalmente gli orari di lavoro nel corso degli anni, e in particolar modo quando, rivolgendosi alla Filcams Cgil, ha tentato di far valere i propri diritti.
“Ho iniziato a lavorare per l’azienda che gestisce i servizi di ristorazione delle strutture sanitarie Villalba e Villa Torri a Bologna nel 2009 – racconta Maria – con un part time che mi impegnava ciclicamente anche nei fine settimana. Dopo qualche tempo, sono riuscita a farmi cambiare di mansione (passando dalla cucina al bar) con un orario orizzontale che rispondeva anche le mie esigenze familiari. Quando, nel 2017, ho avanzato la richiesta che mi venisse adeguato l’inquadramento rispetto al lavoro svolto, sono iniziati i guai, chiamiamoli così, con comportamenti che mi hanno portata anche ad ammalarmi. Ero perennemente ansiosa, in preda ad attacchi di panico per l’imprevedibilità di cosa l’azienda mi riservasse pressoché quotidianamente”.
Cambi di orario con scarsissimo preavviso, cambio di sede lavorativa all’ultimo momento, spesso accompagnata da una sede all’altra (le case di cura Villalba e Villa Torri) dal responsabile del servizio, sono solo alcune delle presunte flessibilità cui l’azienda si appellava per giustificare le continue modifiche.
“Comportamenti e richieste che nel tempo si sono fatti sempre più pressanti e non trattabili – continua Maria – e non riesco a levarmi dalla testa l’idea che si sia trattato proprio di una ripicca, attuata come una sorta di ‘punizione’ per aver chiesto ciò che mi spettava ed essermi rivolta al sindacato, alla Filcams”.
“Abbiamo seguito Maria fin dall’inizio – racconta Daniela Dessì, che per Filcams Cgil Bologna ha seguito direttamente la vertenza – per far valere un diritto sancito dal contratto di lavoro che le veniva applicato. Una situazione abbastanza consueta per molti impiegati per i quali gli orari del part time vengono applicati in modo spregiudicato. Lavoratrici e lavoratori, sia chiaro, non ne facciamo una questione di genere, anche se in molti casi sono proprio le donne a rimetterci maggiormente, vessate e sfruttate al punto di dover rinunciare al lavoro, con dimissioni volontarie”.
Maria ha continuato a lavorare anche a vertenza “aperta”, con sempre maggiori difficoltà, al punto da ammalarsi. Sei mesi di assenza giustificata per malattia al termine dei quali arriva anche il licenziamento, per superamento del periodo di comporto.
“È stato un periodo bruttissimo – racconta – che non auguro a nessuno ma che, per fortuna, ho superato. Con ferite difficili da rimarginare, ma ne sono uscita. La mia speranza è che questo mio piccolo calvario possa servire anche a tante altre lavoratrici e lavoratori nella mia stessa condizione, perché non deve passare il principio che un datore di lavoro può permettersi tutto, solo perché ha di fronte un dipendente che ha bisogno di lavorare e quindi sottilmente ricattabile, con piccole vessazioni”.
Il Tribunale di Bologna, alla fine, le ha dato ragione, sancendo la scorrettezza dell’azienda nel ricorrere ad una flessibilità non prevista dal contratto e riconoscendole un risarcimento per il danno subito.
“Questo pronunciamento è di fatto una ‘sentenza storica’ per la Filcams CGIL – dice ancora e con soddisfazione Daniela Dessì – perché sancisce la nullità delle clausole elastiche qualora siano come in questo caso genericamente richiamate ma assolutamente non conformi a quanto stabilito dai CCNL di cui siamo firmatari. Nei settori che rappresentiamo infatti è molto diffusa la pratica di gestire in maniera spregiudicata gli orari e la loro distribuzione, venendo meno agli obblighi stabiliti in merito dai contratti”.
“Ci auguriamo – conclude Dessì – che questa sentenza sia solo la prima di una serie e che ci rafforzi nelle quotidiane vertenze con le quali rivendichiamo il rispetto dei diritti dei lavoratori”.